I ricercatori partono da una semplice considerazione, che il minimo comune denominatore di tutte queste patologie è indubbiamente la trasmissione animale. Il 70% delle Eid (Emerging Infectious Diseases, malattie infettive emergenti) deriva da un’interazione più o meno diretta fra animali selvatici, addomesticati e sapiens.
In questo senso vanno tenuti in conto diversi fattori scatenanti e/o aggravanti.
Per primo le alte densità di popolazione delle aree urbane: più sapiens in aree ristrette vuol dire più rischio di contagi. I nomadi cacciatori-raccoglitori, ovviamente, si ammalavano molto meno dei cittadini agricoltori e non sviluppavano certo epidemie.
Ed è, peraltro sotto gli occhi di tutti, sebbene non inquadrabile scientificamente, che sia la provincia di Hubei, sia, vorrei dire soprattutto, la Pianura Padana sono regioni estremamente degradate dal punto di vista della qualità ambientale in generale e dell’aria in particolare. In Europa non c’è un’altra area così inquinata come la nostra. Una questione che va presa con le molle, ma che non andrebbe trascurata.
In secondo luogo, i cambiamenti di uso del suolo e l’intensificazione degli allevamenti intensivi, specialmente in regioni cruciali per la biodiversità, sono fattori che intensificano i rapporti sapiens-fauna domestica-fauna selvatica.
Il commercio illegale della fauna selvatica è un terzo motivo di preoccupazione, e non deve essere sottovalutato.
A questo dobbiamo aggiungere la caccia, spinta a livelli insostenibili, e tutta una serie di pratiche tese alla massima resa dei terreni agricoli che impoveriscono la ricchezza della vita e abbattono le difese naturali degli ecosistemi.
Però, qui c’è anche parte della soluzione del problema: basterebbe infatti ridurre l’intensità e il livello di quelle attività distruttive per gli ecosistemi per ridurre, di conseguenza, i rischi di pandemie e, anzi, irrobustire le nostre difese. Purtroppo, però, nonostante esistano modelli di previsione dell’insorgenza di epidemie abbastanza precisi, a questi studi non vengono dedicate risorse in tempo di pace, salvo poi rimpiangerlo quando le malattie scoppiano. Fermare la distruzione degli habitat naturali comporta una revisione del nostro modello di sviluppo, solo che stavolta a indicarla non sono i soliti ambientalisti, ma i medici.