Per nutrirsi meglio la prima regola è quella di sapere «cosa» si mangia.
Lo strumento più immediato a disposizione è l’etichetta, resa obbligatoria dall’UE nel 2011 su tutti i cibi confezionati. Sull’etichetta è specificato il contenuto di grassi (saturi e non), carboidrati, zuccheri, proteine, sale, valore energetico; e per vitamine e sali minerali viene indicata la percentuale contenuta nel prodotto rispetto alla razione giornaliera raccomandata. Poi ci sono i claims nutrizionali, ossia indicazioni concise ben in evidenza sulla confezione: «senza zuccheri aggiunti», «ricco in omega-3», «ad elevato contenuto di fibra». Seguono quelli salutistici: «calcio e vitamina D per aiutarti a rinforzare le ossa», «riduce il colesterolo», «vitamine B6 e D che aiutano il buon funzionamento del sistema immunitario».
In quanti leggono le etichette?
I conti li ha fatti il dipartimento di Scienze e Politiche ambientali della Statale di Milano: solo il 22% legge sempre le etichette e il 28% lo fa spesso. Ma la metà dei consumatori praticamente non la utilizza: il 18% mai, l’11% raramente, il 22% ogni tanto. Tra chi le legge: l’85% ha un titolo di studio superiore, il 58% sono donne e il 52% ha più di 45 anni. I giovani si informano poco: tra i 18 e i 24 anni solo l’11%. Tra chi non le legge: il 65% ha un titolo di studio di scuola media inferiore e in percentuale minore il diploma; il 53% sono uomini, il 47% ha meno di 45 anni. Complessivamente solo il 40% è molto interessato alle diciture sulle vitamine, il 35% al contenuto di grassi, energia, fibre e zuccheri, il 26% alla presenza di sodio/sale.
Misura urgente: la divulgazione
Come è stato fatto per il tabacco e l’alcool, servono campagne di sensibilizzazione che invitano i consumatori a leggere e interpretare correttamente l’etichetta (che va esibita sui prodotti con scritte leggibili anche senza lente di ingrandimento). Il ministero della Salute e dell’Istruzione pubblica dovrebbero prevedere lo sviluppo di programmi che educhino alla sana alimentazione in tutta la scuola dell’obbligo. Sarebbe un’investimento infinitamente più piccolo rispetto al conto che, negli anni, devono sostenere le casse pubbliche proprio a causa di ciò che mangiamo.
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