Pochi giorni fa l’Oms, insieme ad altre agenzie internazionali, ha ribadito con forza il pressante invito lanciato già nelle prime settimane successive all’inizio della pandemia: bisogna al più presto porre fine al commercio illecito di animali e chiudere i mercati, spesso illegali, in cui si vendono animali vivi, i cosiddetti wet market. L’appello, che segue la missione della stessa Oms a Wuhan, parte da un dato: il 70% delle infezioni che più di recente hanno colpito l’uomo – tra le quali la febbre di Lassa, e poi il virus Marburg, simile a Ebola, o il virus Nipah – sono di origine animale, e le previsioni dicono che i rischi stanno aumentando.
È indispensabile vietare ogni genere di commercio (per esempio quello a scopo farmaceutico o quello verso paesi che lo permettano, pur partendo da altri che lo vietano) e chiudere i luoghi più pericolosi come, appunto, i wet market.
Su questo c’è un accordo generale nella comunità scientifica, ma passare dalle parole ai fatti non è semplice, perché in moltissimi Paesi la vendita di carni di animali selvatici, soprattutto quella illegale, è molto fiorente. Come se ne esce?
Un aiuto giunge da uno studio pubblicato in questi giorni su Global Ecology and Conservation e condotto nelle due più grandi città della Repubblica del Congo, Brazzaville e Pointe-Noire, dai ricercatori dell’Università del Maryland e della Wildlife Conservation Society. I ricercatori sono partiti da un elemento preciso: l’analisi della catena dell’illegalità, ovvero delle caratteristiche delle persone coinvolte nella caccia, nel commercio, nell’export e nella lavorazione delle carni di diverse specie protette tra le quali i grandi primati, i pangolini e gli alligatori, e l’individuazione dei luoghi dove si concentrano le attività illegali. Solo avendo una visione chiara di ciò che succede – è stato il ragionamento – si può iniziare a pensare a interventi mirati ed efficaci, per bloccare il fenomeno, e aiutare le autorità locali a definire leggi che permettano di ridurre e poi eliminare pratiche insostenibili, e pericolose.
I ricercatori hanno convocato diversi focus group con esperti locali, e alla fine hanno tracciato una prima mappa dei cacciatori, dei trafficanti, dei luoghi più coinvolti, delle modalità più usate, facendo emergere molti dati interessanti. Per esempio, non di rado chi commercia in specie illegali lo fa sotto l’egida di finte onlus, e i mediatori che lavorano più vicini ai confini nazionali sono anche quelli che più spesso si occupano di traffici illeciti, così come fanno i venditori occasionali. Numerose le figure coinvolte, compresi ufficiali delle dogane ed esperti di logistica, indispensabili per le carni da inviare all’estero, e trader internazionali. Molte, inoltre, le lingue utilizzate nei traffici: francese, inglese, portoghese, ma anche lingala, munukutuba, swahili e altre lingue locali, che è importante identificare per intercettare le comunicazioni.
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