Arriva dagli Stati Uniti l’ultimo allarme sul rischio di ingerire microplastiche, ma soprattutto nanoplastiche, attraverso il consumo di acqua commerciale in bottiglie di plastica: qui un team di ricercatori ha analizzato i prodotti di tre celebri marche, alla ricerca di frammenti di grandezza anche inferiore a 100 nanometri.
E trovandone molti più di quanto accaduto nelle stime precedenti: in un litro di acqua in bottiglia, in media, sono stati individuati 240 mila frammenti di plastica. Fino a cento volte di più rispetto al passato, molto più di quanto non si riscontri nell’acqua di rubinetto.
Nulla, naturalmente, di percepibile all’occhio umano. La ricerca, pubblicata sulla rivista Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences, organo ufficiale della National Academy of Sciences) ha immancabilmente aperto un ampio dibattito sugli Stati Uniti. E minaccia, sin d’ora, di incidere sui comportamenti dei consumatori. Su scala globale.
Le analisi di laboratorio, che hanno utilizzato strumenti di ultimissima generazione con il puntamento di due laser in grado di osservare e “leggere” la risposta delle diverse molecole, hanno individuato da un minimo di 110 mila a un massimo di 370mila particelle di plastica. Si tratta in larga parte (circa il 90%) di nanoplastiche, riconducibili a sette tipologie differenti. Tra queste, come ci poteva attendere, figurano quantità significative di PET, il polietilene tereftalato, utilizzato su larga scala per imbottigliare il 70% delle bottiglie per bevande e liquidi alimentari di tutto il mondo.
Ma più presente del Pet è risultato, stavolta un po’ a sorpresa, il poliammide, una classe particolare di nylon speciali: secondo Beizhan Yan, coautore dello studio e chimico ambientale al Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University, potrebbe derivare dai filtri di plastica utilizzati per purificare l’acqua prima dell’imbottigliamento. Un vero paradosso, insomma. E ancora: polistirene, polivinilcloruro e polimetilmetacrilato, materiali utilizzati nei processi industriali. E l’incognita di un’alta percentuale (circa il 90%) di nanoparticelle che i ricercatori non sono stati in grado di identificare.